Partecipa a Terre Di Chieti

Sei già registrato? Accedi

Password dimenticata? Recuperala

Il maiale grande protagonista tra le tradizioni contadine abruzzesi

Redazione
Condividi su:

Fino ad alcuni anni fa, durante le feste natalizie , nei paesi di montagna iniziava la rituale uccisione dei maiali.

Si aspettavano le giornate più fredde e la luna calante perché la credenza popolare riteneva che ammazzandoli in tale periodo la carne non sarebbe “andata a male”.

Ogni famiglia allevava con cura il proprio maiale che avrebbe fornito la carne per i mesi invernali e che per secoli è stata l’unico apporto di proteine e grassi alla dieta vegetariana praticata dalle società contadine, non certo per loro scelta! Il consumo di carne avveniva esclusivamente nelle ricorrenze e nelle giornate festive e non in tutte sistematicamente, considerata la limitata disponibilità.

 Di solito il maiale si acquistava nelle fiere locali prima dell’estate o dai mercanti che nel mese di settembre venivano a venderli direttamente in paese. Tutti avevano un porcile dove veniva alloggiato e spesso coabitava con gli altri animali della stalla.

Durante il giorno gli venivano dati in pasto i frutti raccolti in campagna, bucce, verdure, erba, eccetera, mentre la sera si preparava la “tina”, una specie di brodaglia fatta con crusca, acqua calda e patate lesse, con l’aggiunta di avanzi alimentari. Man mano che si avvicinava il tempo del sacrificio, la qualità dell’alimentazione migliorava affinché l’animale ingrassasse rapidamente. Si preparava il “beverone”, una sorta di brodo di crusca con cereali, legumi e granturco di cui l’animale andava ghiotto. In autunno, entravano a far parte della “dieta” anche le ghiande, una prelibatezza che contribuiva ad aumentare il suo peso e la bontà della carne. Spesso l’animale arrivava a superare anche i due quintali ed era molto gradito il suo lardo, necessario per il condimento dei cibi durante tutto l’anno.

Qualche giorno prima del sacrificio iniziavano i preparativi, tutta la famiglia era felicemente agitata, si invitavano i parenti e gli amici, evitando dimenticanze, che sarebbero sfociate inevitabilmente in vere e proprie offese. Si iniziava all’alba, gli attrezzi erano tutti pronti, coltelli, uncini e funi. Fuori le donne anziane già alimentavano il fuoco sotto l’enorme caldaio che avrebbe fornito l’acqua bollente per la pulitura del maiale. Spesso c’era neve e la temperatura esterna era rigida, ma il freddo non veniva affatto avvertito; i piccoli alzati di buon’ora facevano festa intorno al fuoco, sistematicamente allontanati dalle madri e dalle nonne nel timore di scottature. Poco dopo arrivava il maiale seguito da tre o quattro uomini; era legato con una fune alla zampa anteriore, camminava a fatica per il peso e forse anche perché intuiva qualcosa di spiacevole. Veniva incitato a voce e allettato con chicchi di granturco che gli venivano disseminati davanti man mano che avanzava sullo strato di neve ghiacciata. Arrivato sul posto, l’animale veniva immobilizzato da quattro o cinque uomini, che gli legavano le zampe, mentre un altro uomo, armato di coltello già gli aveva legato il grugno per evitare i morsi. Poi veniva preso di peso e collocato su un vecchio e robusto tavolo, mentre l’animale strepitava ed emetteva urli e gemiti sovrumani. Tutti gli altri intorno osservavano fermi e silenziosi e nei loro volti si poteva scorgere una certa forma di eccitazione tipica dei riti pagani. A questo punto, l’uomo col coltello, con gesti rapidi e precisi che assumevano la solennità di un antico rito sacrificale, prima infilava un uncino sotto il muso dell’animale, che intensificava gli urli e gli strepiti e poi velocemente gli infilava il coltello in gola fino a recidere la giugulare. Il sangue fuoriusciva copioso e finiva nel recipiente che una donna teneva sotto l’animale e girava con le mani per evitare la coagulazione; sarebbe stato utilizzato per farne il sanguinaccio, un dolce molto gradito a quei tempi. Infine, il povero animale cessava di dibattersi e giaceva esanime sul tavolaccio.

Tutti, grandi e piccoli assistevano con scontata normalità a questo rito così cruento, che veniva praticato con una violenza inconcepibile al giorno di oggi, ma allora le nostre sensibilità erano ben diverse. In realtà questo antico rito della cultura contadina era visto come una festa e un’occasione di socializzazione in un mondo che offriva pochi momenti di vero relax e, quando c’erano, venivano associati ad attività lavorative più leggere. Subito dopo si procedeva alla spellatura, buttando addosso all’animale acqua bollente e raschiandolo con i coltelli che portavano via anche le setole. Successivamente veniva lavato con canovacci imbevuti di acqua calda e aceto e poi si infilavano i tendini delle zampe posteriori, appositamente scoperti, alle estremità di un legno a forma di V allargata (chiamato vammer) che, legato con funi all’apice, veniva fissato al soffitto sollevando il maiale e mantenendolo a testa in giù con le zampe divaricate; in questa posizione era facile lavorarlo. Infatti, con un coltello affilato e aiutandosi con un’ascia si tagliava a metà partendo dall’alto. Una volta aperto si infilavano le mani all’interno della carcassa e con un certo sforzo si tiravano fuori le interiora ancora fumanti e maleodoranti; sarebbero state tutte pulite dalle donne e utilizzate per gli insaccati. Non si buttava nulla! Quindi si asportavano pezzi di carne da cuocere per il pranzo di quella giornata di festa. La carne veniva tagliata a pezzi, condita con sale, tanto aglio a spicchi interi, collocata in una padella di ferro (chiamata fr’ssora) e subito messa a cuocere sulla fiamma viva del camino. Immediatamente un armonioso sfrigolìo e un profumo intenso ed invitante si diffondevano per tutto l’ambiente, provocando l’acquolina in bocca a tutti i presenti. Quando la carne era ben rosolata veniva collocata al centro tavola e il grasso disciolto nella padella veniva colato sulle numerose fette di pane accatastate l’una sull’altra, ottenendo così la famosa “panonta” che veniva divorata con gusto dai presenti, insieme a pezzi di carne e spicchi d’aglio rosolato, che ognuno infilava direttamente dalla padella.

Ancora oggi in molti ricordano la bontà ineguagliata di quei pasti a base di grasso, pane e carne, il cui gusto, non è facilmente eguagliabile neanche dai più ricercati e raffinati pasti di oggi. La festa era grande e anche la gioia perché dopo tanto tempo si mangiava carne, a lungo assente dalle nostre tavole e poi c’era l’apporto allegro e brioso del vino rosso novello appena spillato dalla botte migliore.

 

Condividi su:

Seguici su Facebook